Auschwitz: 5 cose che la gente non sa

A circa un’ora di macchina da Cracovia si trova il paese di Oświęcim, tristemente noto al mondo con il suo nome tedesco di Auschwitz.
Inizialmente i nazisti pensarono a questo luogo come ad un campo di lavoro dove mandare quei polacchi che si fossero opposti ad Hitler, tuttavia, con la cosiddetta soluzione finale progettata nel 1942, decisero di farlo diventare il principale campo di sterminio per assassinare quanti più ebrei possibile. Dal ’40 al ’45 vi furono deportate circa 1 milione e 300 mila persone, la stragrande maggioranza dei quali erano ebrei con la sola colpa di “essere nati”, ma anche polacchi, zingari, omosessuali e prigionieri dell’esercito sovietico. L’80% di queste persone non rimase ad Auschwitz più di mezz’ora poichè spedite immediatamente alle camere a gas; altre 100 mila morirono di fame, freddo, fatica, infezioni e malattie.
Oggi è la Giornata della memoria: perciò ho deciso di parlare della mia visita a questo campo di sterminio, raccontando 5 cose su Auschwitz che la maggior parte delle persone non conosce.
Tutte le fotografie presenti sono state da me scattate.
1 I deportati greci dovettero pagare ai nazisti il biglietto del treno
L’inganno più noto di Auschwitz è quello relativo alle camere a gas camuffate da “docce”, tuttavia i prigionieri venivano ingannati ancora prima di essere deportati, quando gli veniva detto che sarebbero stati trasferiti ad est in un “posto migliore”. A conferma di ciò sono esposti nel campo alcuni dei biglietti del treno per il viaggio che vennero venduti dai tedeschi agli ebrei greci.
L’imbroglio continuo dei nazisti si può comprendere anche dagli oggetti dei prigionieri ancora conservati nel campo, tra i quali si trovano scarpe da donna piuttosto eleganti (chi mai le porterebbe se sapesse di andare in un posto come Auschwitz) e le valigie con scritto sopra i nomi dei proprietari, ai quali veniva fatto credere che ne sarebbero rientrati in possesso una volta arrivati a destinazione (mentre il loro contenuto veniva preso dai nazisti).
2 Gli appelli erano il primo strumento di tortura
Nonostante in un inferno del genere possano sembrare il male minore, gli appelli rappresentavano una tortura tremenda inflitta ai prigionieri, i quali, già stremati dal lavoro e dalla fame, erano costretti a stare in piedi per delle ore con temperature che in inverno raggiungevano i 30 gradi sotto lo zero.
L’appello più lungo di Auschwitz durò 19 ore, e chi cadeva a terra veniva “ovviamente” ammazzato.
3 Il gas non usciva dai bocchettoni delle docce
Nelle camere a gas, i bocchettoni delle docce servivano solo per confermare il subdolo inganno dei nazisti, in quanto il veleno veniva in realtà immesso attraverso dei buchi sul tetto sotto-forma di piccoli “sassolini”, che a contatto con l’alta temperatura nella stanza (dove vi erano moltissime persone in poco spazio) evaporavano e, una volta respirati, portavano alla morte in pochi minuti.
Ancora oggi è possibile entrare in una delle camere a gas che nazisti non sono riusciti a distruggere durante la loro fuga.
All’interno è proibito parlare, per rispetto alle migliaia di persone che vi persero la vita.
4 Ad Auschwitz sono conservati i capelli dei detenuti
Com’è noto, una volta arrivati al campo i prigionieri venivano completamente rasati, quello che non tutti sanno è che buona parte dei capelli sono stati conservati ed esposti in una sala di questo incredibile “museo”. Quando li ho visti stentavo a crederci, ed è stato probabilmente il momento più toccante della mia visita al campo. Trattandosi di autentici capelli umani, non è (giustamente) possibile fotografarli per rispetto alle vittime, posso però mettere una foto degli occhiali dei prigionieri esposti nella stanza accanto, al posto dei quali basta immaginare dei capelli, in quantità molto superiore.
5 La baracca dei bambini
Ad Auschwitz Birkenau (che molti credono erroneamente essere stato un campo di concentramento esclusivamente femminile) si può visitare una delle cose più commoventi, vale a dire la baracca destinata a quei pochi bambini che non furono spediti immediatamente alle camere a gas. Appena ne avevano la possibilità, gli altri detenuti cercavano di apportarvi quelle migliore indispensabili per i piccoli prigionieri, come questa scaletta di legno per raggiungere il “letto” più alto.
I prigionieri adulti si erano addirittura procurati in qualche modo carta e penne per far disegnare i bambini, quando era possibile.
Alla fine di questa visita sono rimasto impressionato da molte cose. Da quanto male possano infliggere alcuni “esseri umani” ad altri esseri umani, con assoluta mancanza di pietà, da quanto bene si sia riuscito a conservare il campo, cosa fondamentale per smentire quei pazzoidi che ogni tanto affermano che l’olocausto non è mai esistito, e da quante cose non sapevo su Auschwitz.
Qualche considerazione finale:
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Auschwitz è un museo molto particolare, la cui visita bisogna dimostrare di meritare: infatti, nonostante l’atteggiamento rispettoso della maggior parte della persone, non è mancato qualcuno che si faceva il selfie con l’amico di fronte ai forni crematori o che ogni tanto si lasciava scappare una risata, senza capire che nel punto esatto in cui stava camminando morì probabilmente più di una persona.
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Nonostante dopo la guerra il capo di Auschwitz sia stato impiccato proprio di fronte al campo, la stragrande maggioranza dei carnefici che vi “lavoravano” è riuscita in vari modi a sfuggire alla giustizia, cosa che mi procura un forte senso di rabbia
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Lo scopo di una visita ad Auschwitz non è solamente quello di dire “ah i nazisti che cattivi”, ma piuttosto quello di riflettere su come una cosa del genere sia potuta accadere. Auschwitz non si è materializzato dal nulla, ma è stato il risultato di un processo graduale basato sull’intolleranza verso il prossimo, intolleranza ancor oggi presente in tutto il mondo ed in diverse forme: religiosa, etnica, sessuale ecc..
A questa intolleranza bisogna opporsi con fermezza, come fece Giorgio Perlasca, un italiano che durante quegli anni bui salvò a Budapest 5 mila ebrei dalla deportazione, il quale, nell’ultima intervista prima di morire, disse: Vorrei che la mia vicenda fosse ricordata dai giovani perché, sapendo quanto è successo, sappiano anche opporsi a violenze del genere, se mai dovessero ripetersi.
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